Il fallimento pilotato dei comuni italiani
Gli enti locali non possono più permettersi i servizi pubblici, a causa di minori trasferimenti dallo Stato, del taglio dell’Ici e delle regole di Bruxelles
“Ho fatto cambiare il cartello affisso fuori dal mio ufficio: non più sindaco, ma curatore fallimentare”. Giorgio Dal Negro è sindaco di Negrar, una cittadina da 17mila abitanti in provincia di Verona. Dal Negro è anche presidente dell’associazione dei Comuni veneti (Anci Veneto). “Pensavo di poter amministrare bene, e invece sono nella situazione di veder fallire le mie aziende, senza poter far nulla”. Le parole del sindaco di Negrar potrebbero essere messe in bocca alla maggior parte degli oltre 8mila sindaci italiani, di destra o sinistra che siano. Perché i Comuni italiani soffrono: non hanno soldi, o non possono spenderne. Cadono sotto i colpi di una politica nazionale demagogica che elimina i tributi locali ma non ne compensa la perdita, di un progressivo accentramento delle decisioni (mascherato di falso federalismo) e di regole europee miopi e controproducenti.
Ma se i Comuni falliscono, il problema è di tutti. Nei servizi, innanzi tutto. Niente soldi, niente asili nido, servizi alla persona, agli anziani, trasporti pubblici, raccolta dei rifiuti, sostegno alle famiglie, vigili urbani. Basta farsi un giro nella propria città, e fare due conti a casa, per rendersi conto di quanto i Comuni si siano impoveriti negli ultimi anni. I problemi sono anche per i conti dello Stato: secondo l’Istat, il comparto degli enti locali ha contribuito al miglioramento dei conti pubblici correggendo il proprio saldo, che tra il 2004 e il 2008 è migliorato di 2,5 miliardi di euro. Non solo: il 60% della spesa per investimenti del Paese è sostenuta dai Comuni. Eppure il grido di dolore dei sindaci è più forte che mai. E nessuno sembra ascoltarlo.
Le “spettanze”. Per sapere quanto lo Stato versa alle amministrazioni comunali basta fare un salto sul sito del ministero dell’Interno. Qui, alla voce “finanza locale”, si può consultare il database delle “spettanze” dei Comuni italiani. Si tratta di quanti soldi lo Stato deve a ciascuno comune. Andate su finanzalocale.interno.it e cercate il vostro Comune. I dati arrivano fino al 2009, e si possono controllare le cifre negli anni precedenti. Provate a farlo, confrontando le cifre 2009 col 2008, e troverete una sfilza di segni meno. Milano, meno 40 milioni. Torino, meno 30 milioni. Roma, meno 90 milioni. I trasferimenti dallo Stato ai Comuni si riducono anno dopo anno. Queste cifre però non danno un quadro preciso della realtà. Molti adempimenti non sono ascritti e, soprattutto, molte cifre sono, appunto, “spettanze”: somme che spettano ai Comuni, ma non è detto che vengano erogate, né con precisione quando.
Il caso più clamoroso è quello dell’imposta comunale sugli immobili, l’Ici, cancellata per le “prime case” con un colpo elettorale dal governo in carica. Dopo aver abolito questo tributo, l’esecutivo aveva promesso ai Comuni trasferimenti per cifre analoghe per compensare della perdita. Ma mentre il mancato gettito 2008 ammonta a circa 3,4 miliardi di euro, il governo ha stanziato 2,8 miliardi. 600 milioni in meno per il 2008: diventeranno 796 milioni nel 2009 e nel 2010.
Milano ha perso 36 milioni di euro di Ici, Roma 33 milioni. L’imposta sulla prima casa è fondamentale per tutti i Comuni con alta densità abitativa: non a Capri o Cortina, dove ci sono solo seconde case. Ma non è solo un problema di soldi: l’Ici era di fatto l’unico tributo locale. Con la sua abolizione, il controllo delle casse comunali è passato tutto al governo centrale. Alla faccia del federalismo fiscale tanto declamato, che al momento rimane un progetto sulla carta.
Secondo la Corte dei Conti, che stima in un 12% la riduzione delle entrate correnti dei Comuni per il 2008, con l’abolizione dell’Ici sulla prima casa si è realizzata una sorta di rivoluzione copernicana, secondo la quale i trasferimento dallo Stato ora costituiscono la voce maggiore (il 40%) del budget a disposizione delle amministrazioni comunali. Fino a un anno fa non era così.
La beffa è del patto. Il controllo centrale dei conti locali passa anche dall’Europa. Il cosiddetto “patto di stabilità interno” è l’incubo dei sindaci. Arriva direttamente da Maastricht, e dice che il debito degli enti locali va rigidamente controllato. Il risultato però è un danno: secondo l’Associazione nazionale dei comuni italiani (www.anci.it), oggi gli enti locali hanno nelle proprie casse 3,2 miliardi di euro, che però in virtù del patto non possono spendere. Soldi che potrebbero essere utilizzati per realizzare opere di manutenzione e aiutare le economie locali, il cui utilizzo viene però limitato ancora una volta a livello centrale. Non solo: secondo il patto i Comuni dovranno ridurre nel triennio 2009-2011 la spesa totale del 18%, ovvero di 9 miliardi di euro. “Siamo in una situazione paradossale -spiega il sindaco di Casalmaggiore (Cr), Claudio Silla-: molti Comuni hanno risorse disponibili ma non possono spenderle.
I vincoli stritolanti del patto paralizzano l’economia e bloccano i pagamenti dei fornitori di molte amministrazioni locali”. “Non ce la facciamo più -rincara Graziano Delrio, sindaco di Reggio Emilia-. Quest’anno la percentuale dei Comuni che non rispetterà il patto di stabilità passerà dal 3 al 40%”.
I servizi sul mercato. A dare respiro ai bilanci comunali in tutti questi anni avevano contribuito anche le municipalizzate, ormai ex, coi loro bilanci in utile. Oggi la situazione è molto cambiata, e i conti non sono più così rosei. Eppure le “aziende del sindaco” servono ancora: a Milano (che ha rimandato la chiusura del bilancio a febbraio 2010 e optato per l’esercizio provvisorio, in attesa di colmare un buco da 160 milioni di euro) l’assessorato al Bilancio ha attinto dalle casse dell’aziende dei trasporti pubblici, l’Atm, che ha girato all’azionista di riferimento (il Comune, che ha il 100% della proprietà) un maxidividendo straordinario.
È vero che in quest’anno di crisi le utility controllate dagli enti locali non hanno aiutato i loro proprietari, ma la torta è ghiotta, e anche per questo fa gola ai privati. Il recente decreto “Ronchi”, che obbliga a lasciare i servizi locali in mano ai privati entro il 2015, è un regalo a questi ultimi e l’ennesimo scippo ai comuni.
E la chiamano “liberalizzazione”.
La tentazione dei derivati, e una montagna di debiti. Dopo la sbornia di qualche anno fa, nessuno di fida più dei prodotti finanziari ad alto rischio. I derivati avevano promesso -complice l’incompetenza di molti funzionari- di sollevare le casse di molti enti locali facendoli giocare in Borsa. Soldi facili e subito. Il risultato è un debito difficile da scrollarsi di dosso, nonostante gli interventi normativi. Oggi sono ancora 629 gli enti locali titolare di contratti derivati: 570 sono Comuni (45 sono capoluoghi). Il totale è di 35 miliardi di euro di debiti, metà dei quali è delle Regioni. Solo nell’ultimo anno e mezzo, 90 Comuni hanno definitivamente detto addio alla tentazione dei derivati. Ma il danno è stato fatto: per 40 Comuni sono in corso indagini della magistratura per un valore di 9 miliardi di euro di debito. Milano da sola ha in ballo un prestito da 1,6 miliardi, contratto nel 2005, con relativa causa in corso contro gli istituti Deutsche Bank, Depfa, Ubs
(vedi Ae 103). La Regione Toscana ha in portafogli derivati per 1,7 miliardi di euro.
Secondo la Banca d’Italia, alla fine del 2008 il debito totale delle amministrazioni locali (non solo derivati) ammontava a 106,6 miliardi di euro, il 44,6% a carico dei Comuni (vedi tabella a fianco).
Non resta che cementificare. “La vera rivoluzione è avvenuta quando gli oneri di urbanizzazione sono potuti entrare nella spesa corrente” ci dice Salvatore Amura, assessore al Bilancio del comune di Canegrate (Mi). Amura è anche vicepresidente dell’associazione “Rete nuovo municipio” (www.nuovomunicipio.org). È il primo governo Berlusconi che permette ai Comuni di utilizzare i soldi derivanti dalla cementificazione del territorio per finanziare i propri servizi.
“E così i Comuni si sono messi a far costruire sempre più case. Solo che gli oneri arrivano una tantum, ma nel frattempo i costi dei nuovi cittadini te li porti avanti sempre. Come fai a pagare? Continui a costruire. È una specie di droga: distruggi il territorio e non hai più i soldi per gestire le conseguenze della distruzione. Né per pagare gli altri servizi: la quota dei costi coperta dai cittadini (oggi al 35-40%) è destinata a salire. Inevitabilmente. E con essa, il numero di cittadini che non riuscirà a pagare”. “I Comuni e gli enti locali sono strozzati dal taglio dell’Ici e dal patto di stabilità. Ma in pericolo non ci sono solo bilanci: dai Comuni passa la coesione sociale” ci spiega Giorgio Oldrini, sindaco di Sesto San Giovanni, l’ex “Stalingrado d’Italia” alle porte di Milano, che oggi coi suoi 83mila abitanti è la quarta città lombarda. “Diminuiscono le risorse, mentre aumenta la richiesta sociale: imprese, lavoratori, famiglie in crisi. Da noi è drammatica la situazione dei minori. Negli ultimi due anni la spesa comunale destinata ai bambini affidati dal tribunale al Comune è passata da 300mila euro a quasi 2 milioni di euro. Sono bambini abbandonati, vittime di violenza o della conflittualità dei genitori che si separano. Nessuno può dirci che questa è una spesa contenibile”.