HADOPI: Governo avvisato, mezzo salvato
La definitiva approvazione della dottrina Sarkozy in Francia rischia di aprire le porte a una HADOPI all’italiana. Ecco perché non bisogna seguire quella strada.
Lo scorso 28 ottobre, identificata con il numero 1311, la famigerata legge HADOPI è stata pubblicata sulla gazzetta ufficiale della repubblica francese ed una delle più temute minacce per la libertà della Rete dell’ultimo anno si è così trasformata in realtà. È facile prevedere che, nelle prossime settimane, il partito dell’antipirateria italiano tornerà a bussare energicamente alle porte del Palazzo per chiedere di “scongelare” le proposte di legge e le iniziative sin qui ibernate ed accelerarne il varo.
Sin qui, infatti, il dibattito a Bruxelles, sull’ormai famoso emendamento 138 nell’ambito dei lavori sul Pacchetto Telecom, e i dubbi di legittimità relativi all’HADOPI emersi in Francia hanno frenato e rallentato le azioni di governo in tema di antipirateria. Ne è un esempio eclatante il Comitato per la lotta contro la pirateria digitale e multimediale, costituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, che avrebbe dovuto terminare i propri lavori in 60/90 giorni e che, a distanza di quasi un anno dall’insediamento, non ha fatto altro che svolgere qualche audizione.
HADOPI in italiano come si scriverà?
È questa la domanda che, a questo punto, bisogna porsi e porre al Palazzo mettendo, sin d’ora, nero su bianco alcuni concetti che il vecchio proverbio “uomo avvisato è mezzo salvato” suggerisce, che Parlamento e Governo abbiano chiari per evitare di sprecare tempo e risorse nel varo di una legge inutile, inapplicabile ed inopportuna. Ecco alcuni di questi concetti, a mio avviso, imprescindibili.
1. Niente forme di giustizia privata
Le indagini e le verifiche necessarie all’individuazione dei “presunti pirati” andranno compiute esclusivamente da soggetti pubblici, con esclusione, quindi, di ogni forma di coinvolgimento – diverso dalla denuncia – da parte dei titolari dei diritti d’autore, delle loro associazioni di categoria o della SIAE che, in Italia, continua a giocare – sotto la nuova etichetta di ente pubblico economico – a seconda delle circostanze, il ruolo, tecnicamente ambiguo, di soggetto pubblico o operatore privato, rappresentante degli interessi di categoria.
Non c’è spazio nel nostro Ordinamento per forme di giustizia privata o semiprivata nelle quali le indagini sono condotte dalle pretese vittime di un illecito. Questo è tanto più vero laddove – come rischia di accadere nell’HADOPI all’italiana – una sanzione tanto grave come la disconnessione dalla Rete potrà essere comminata all’esito di un procedimento sommario nel quale il diritto alla difesa dell’imputato sarà, almeno in prima battuta, attenuato e sacrificato sull’altare dell’esigenza – già di per sé difficile da condividere – di sanzioni rapide ed efficaci.
2. La responsabilità penale è personale
L’art. 27 della nostra Costituzione prevede che la responsabilità penale è personale. Si tratta di un principio che, come ricordava già l’On. Moro proponendone l’approvazione alla prima sottocommissione dell’Assemblea Costituente il 18 settembre del 1946 “è un’affermazione di libertà e di civiltà”. In tale contesto è ovvio che l’HADOPI all’italiana non potrà, in alcun modo, derogare a tale principio in nome dell’asserita difficoltà di individuare la persona cui imputare la violazione degli altrui diritti di proprietà intellettuale e non potrà, pertanto, traslare la responsabilità per tale condotta dal suo autore materiale al titolare delle risorse di connettività utilizzate per porre in essere la pretesa violazione.
È quanto accadrebbe qualora si introducesse nel nostro Ordinamento un obbligo a carico del titolare del contratto di fornitura di risorse di connettività di vigilare affinché tali risorse non siano utilizzate per la violazione di altrui diritti d’autore. Si tratterebbe, infatti – nonostante lo sforzo compiuto, attraverso una fictio iuris, di rendere tale responsabilità autonoma da quella per violazione dei diritti di proprietà intellettuale – di un’evidente tentativo di eludere il citato principio: alla mancata vigilanza, in realtà, verrebbe attribuito il valore di una partecipazione alla violazione, partecipazione, peraltro, tanto grave e determinante da giustificare una restrizione della libertà personale quale la perdita del diritto di accesso alla Rete. È una strada che non si può e comunque non si deve percorrere.
L’Italia è un Paese con sacche di analfabetismo informatico ampie e diffuse, distribuite a macchia di leopardo sul territorio, e la gestione ed il controllo delle reti WiFi domestiche, professionali ed aziendali è tutt’altro che soddisfacente per limiti culturali, tecnologici e politici. In un simile contesto – del quale non si può non tener conto in una prospettiva de iure condendo – imporre al titolare di un contratto per la fornitura di risorse di connettività l’obbligo di vigilare che la propria Rete non venga usata per effettuare download non autorizzati di contenuti protetti da diritto d’autore significa, nella sostanza, configurare in capo a tale soggetto una sorta di responsabilità oggettiva. Come si fa, nell’attuale contesto socio-culturale, a pretendere l’adempimento ad un tale obbligo di custodia in un ufficio, in una piccola azienda, in una multinazionale, in un’università o, magari, in un ufficio pubblico?
Sin qui il perché tale soluzione risulterebbe in contrasto con la nostra carta costituzionale. Vi è poi una ragione di inopportunità che, egualmente, suggerisce di astenersi dal percorrere tale strada. Collegare alla titolarità di talune risorse di connettività responsabilità tanto gravi rischia, infatti, di innescare dinamiche per le quali si avrà paura di disporre di certe risorse e si sarà oltre misura “gelosi” del loro utilizzo da parte di terzi nell’ambito di qualsivoglia genere di comunità: familiare, lavorativa o universitaria. Tali dinamiche non faranno che aumentare il divario digitale che già affligge il Paese.
Per tutelare gli interessi di un’industria o, meglio ancora, con l’ambizione – destinata a rimanere frustrata – di tutelare gli interessi economici di un’industria, si rallenterà ulteriormente l’innovazione del Paese e se ne frenerà lo sviluppo culturale, politico ed economico. È bene pensarci prima che sia troppo tardi.
3. Internet strumento di diritti civili e politici
Il Codice dell’amministrazione digitale e l’incredibile apparato normativo – probabilmente persino sovradimensionato rispetto agli obiettivi perseguiti ed alle reali possibilità di raggiungerli – varati negli ultimi anni in vista della digitalizzazione della Pubblica Amministrazione hanno posto le risorse telematiche e gli strumenti informatici al centro dei rapporti tra amministrazione e cittadini e li hanno resi strumento privilegiato – e in alcuni casi esclusivo – di esercizio di taluni diritti civili e politici. Nei prossimi anni auspicabilmente il dialogo tra PA e cittadino avverrà esclusivamente online. In tale contesto è evidente che in nessun caso l’irrogazione di una sanzione per omessa vigilanza delle proprie risorse di connettività potrà comportare per un intero nucleo familiare l’impossibilità di esercitare – per un periodo più o meno lungo di tempo – i propri diritti civili e politici.
Sembra evidente ma, considerata l’ostinazione di molti nell’esigere soluzioni stile HADOPI, giova ribadirlo che non si può, in Italia, nel 2009, precludere a tutti i membri di una comunità più o meno ampia che condividono una medesima risorsa di connettività di richiedere un certificato anagrafico o di prenotare un esame medico solo perché uno di loro è sospettato di aver scaricato un film di troppo via peer to peer.
La proprietà intellettuale costituisce – come ho già scritto – un pilastro insopprimibile della società dell’informazione, ma i diritti civili e politici vengono prima.
4. Prove e procedimenti andranno gestiti a norma di legge
La legge HADOPI appena varata in Francia richiede, affinché i precetti in essa contenuti divengano applicabili, una complessa ed assai costosa attività di implementazione. Si tratta di un profilo del quale ormai si discute da tempo, in Francia come nel Regno Unito, e non manca chi ha già fatto osservare che, probabilmente, i costi di realizzazione del sistema antipirateria firmato HADOPI saranno superiori rispetto ai benefici che il sistema garantirà all’industria audiovisiva.
A prescindere, tuttavia, da tali profili, il “sistema HADOPI”, una volta a regime, riposerà su una complessa attività di acquisizione di dati ed informazioni di carattere personale, di conservazione e repertamento di prove informatiche e di comunicazioni elettroniche tra l’Autorità di controllo, i provider e gli utenti. Tale sistema – più facile a tradursi in norma di legge che ad implementarsi – dovrà, naturalmente, essere realizzato ed attuato nel rispetto della vigente disciplina sulla tutela della privacy e della riservatezza e, soprattutto – e si tratta di uno dei tanti aspetti, credo, sottovalutati dal partito italiano antipirateria – del Codice dell’amministrazione digitale che ha, ormai, fissato rigide regole in materia di efficacia probatoria dei documenti informatici così come delle comunicazioni elettroniche.
In tale contesto normativo – dal quale il legislatore non potrà prescindere allorquando tenterà di assecondare le richieste dell’industria audiovisiva, emulando il legislatore francese – sembra francamente arduo ipotizzare che sia possibile implementare, in Italia, un sistema antipirateria stile HADOPI.
Tanto per fare alcuni esempi, i file contenenti le presunte prove delle condotte di violazione dei diritti di proprietà intellettuale andranno tutti acquisiti nel rispetto delle best practice formatesi nel mondo della forensics e conservati su documenti informatici firmati digitalmente mentre i warning che l’Autorità dovrà indirizzare ai titolari delle risorse di connettività coinvolti in pretese violazioni dei diritti di proprietà intellettuale andranno trasmessi o con la vecchia, cara e costosa raccomandata con avviso di ricevimento o, se il destinatario rientrerà nel novero dei fortunati ai quali il Ministro Brunetta sta per regalare un indirizzo PEC, a mezzo posta elettronica certificata.
Ogni altra soluzione consentirebbe ai legali dei presunti pirati di sgretolare, a norma di legge, l’ipotesi dell’accusa ed impedirebbe al Giudice di irrogare qualsivoglia sanzione. Dura lex sed lex, non solo per i pirati ma anche per le Autorità di controllo e le major dell’audiovisivo.
Siamo sicuri che valga la pena spendere tanti soldi ed investire tante risorse per implementare un sistema destinato ad implodere nelle aule di giustizia?
5. La riparazione per ingiustificata disconnessione
Non c’è dubbio che, nella società dell’informazione, essere privati, per un periodo più o meno lungo, dell’accesso ad ogni risorsa di connettività costituisce una importante limitazione della propria libertà personale.
In tale contesto è ovvio che allorquando si porrà mano alla legge HADOPI all’italiana occorrerà prevedere un meccanismo di automatica equa riparazione per tutte quelle ipotesi – che appaiono destinate ad essere numerose e frequenti in ragione del carattere sommario dei procedimenti ai quali si vuole affidare l’irrogazione delle sanzioni – in cui all’esito di un giudizio a cognizione piena dovesse risultare che il titolare di una risorsa di connettività ne sia stato ingiustamente privato per un errore dell’Autorità.
Tenuto conto che le risorse di connettività sono ormai divenute – almeno per quel 50 per cento della popolazione che ne dispone – protagoniste indiscusse della vita lavorativa così come di quella di relazione e prezioso ed in taluni casi unico strumento di esercizio di diritti civili e politici, il risarcimento dei danni che competerà ai presunti pirati che dovessero risultare innocenti potrebbe essere a diversi zeri…
Sarà sempre lo Stato – e quindi noi – a pagare per gli inevitabili errori commessi all’unico fine di tutelare i diritti e gli interessi di un’industria di settore.
Mi fermo qui ma l’elenco degli aspetti di criticità connessi all’adozione nel nostro Paese di una legge HADOPI potrebbe proseguire ancora a lungo.
Buon senso e ragionevolezza suggerirebbero, pertanto, di astenersi dall’intraprendere un percorso tutto in salita e concentrare, piuttosto, gli sforzi sulla ricerca di soluzioni diverse, più creative e, soprattutto, idonee a rinsaldare il rapporto tra l’industria audiovisiva ed i propri consumatori piuttosto che a creare, tra la prima ed i secondi, ulteriori barriere ideologiche e culturali che non faranno, naturalmente, che indurre i secondi – come già accaduto ad ogni precedente giro di vite del legislatore in materia di antipirateria – a sviluppare ed utilizzare sistemi e tecnologie da pochi euro e due click idonei ad eludere ogni sforzo di applicazione delle regole e a far salire di livello dell’eterna rincorsa tra guardie e ladri.
Non credo, tuttavia, che tali riflessioni basteranno a far cambiare idea all’industria audiovisiva che, probabilmente, non ha interesse ad una legge antipirateria effettivamente applicabile ma è disponibile ad accontentarsi di una legge – come ce ne sono già tante – che rappresenti una minaccia per i fruitori di contenuti digitali, e che possa essere propagandisticamente utilizzata per disincentivarli dall’utilizzo di certe tecnologie ritenute pericolose.
Una legge-minaccia, tuttavia, è più pericolosa di una legge effettivamente applicabile perché, a differenza della seconda, non consente agli utenti di poter contare sulle garanzie offerte da un giusto processo e li induce a ispirare i propri comportamenti alla semplice paura di vedersi irrogare una sanzione.
È per questo che non ci si può accontentare di leggere e pensare che l’HADOPI italiana non sarà applicabile perché la sua semplice entrata in vigore rischia di produrre conseguenze peggiori di quelle che produrrebbe la sua applicazione.
Guido Scorza
Presidente Istituto per le politiche dell’innovazione
www.guidoscorza.it
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