50 anni di tagli alle tasse per i più ricchi non hanno portato benefici alla crescita economica e all’occupazione
Cinquant’anni di riforme fiscali che hanno tagliato le tasse dei ricchi non solo hanno ampliato la disparità di redditi esistente, ma al contempo non hanno prodotto ricadute positive sulla società in termini di crescita economica e di miglioramento del mercato del lavoro. Il pil pro-capite e il tasso di disoccupazione non sono stati condizionati positivamente dalla riduzione delle imposte di cui le classi più agiate hanno beneficiato dal 1965 al 2015 in ben 18 paesi dell’Ocse, dagli Usa al Regno Unito, fino all’Italia.
A dirlo è un nuovo studio pubblicato dall’International Inequalities Institute (III) della Lse, che finisce per sostenere indirettamente l’idea secondo cui i paperoni dovrebbero contribuire di più alla ripresa economica post covid. E così si pone in contrasto con quelle ricerche che giustificano l’abbattimento delle tasse dei più ricchi con il fatto che gli effetti si riverberano sul resto dell’economia. “Il nostro lavoro mostra che l’argomentazione a favore della politica di mantenere basse le tasse sui patrimoni più alti è debole”, ha commentato David Hope, autore del paper, Visiting Fellow dell’III e docente di economia politica al King’s College London. “I tagli fiscali fin dagli anni ottanta hanno accresciuto le disuguaglianze, con tutti i problemi che questo comporta, senza generare contributi compensativi a favore della performance economica”.
Una conclusione che offre nuovi spunti al dibattito in corso sulle misure più adeguate che le autorità nazionali dovrebbero adottare per affrontare le conseguenze economiche e sociali della crisi sanitaria internazionale. “I risultati del nostro studio potrebbero essere una buona notizia per i governi impegnati a sostenere l’impatto del covid-19 sulle finanze pubbliche, visto che suggeriscono che non dovrebbero essere eccessivamente preoccupati delle conseguenze economiche derivanti dall’imposizione di tasse più alte per i ricchi”, ha aggiunto Julian Limberg, l’altro autore dello studio, professore di Public Policy at King’s College London.
L’aumento delle imposte sui patrimoni più elevati è un tema che è stato dibattuto dalle élite politiche dei vari paesi. Anche in Italia, l’emendamento alle legge di bilancio che propone l’introduzione di una patrimoniale, a firma di Nicola Fratoianni (Leu) e Matteo Orfini (Pd), ha scatenato molte polemiche in questi giorni. Il provvedimento puntava a disapplicare, a partire dal primo gennaio 2021, l’imposta municipale unica e l’imposta di bollo sui conti correnti bancari e sui conti di deposito titoli; e nel frattempo instituiva, a decorrere dal primo gennaio del nuovo anno, “un’imposta ordinaria sostitutiva sui grandi patrimoni la cui base imponibile è costituita da una ricchezza netta superiore a 500.000 euro derivante dalla somma delle attività mobiliari ed immobiliari al netto delle passività finanziarie, posseduta ovvero detenuta sia in Italia che all’estero, da persone fisiche”. Come si legge nel testo dell’emendamento, la tassa prevedeva diverse aliquote:
- 0,2 per cento per una base imponibile di valore compreso tra 500.000 euro e 1 milione di euro;
- 0,5 per cento per una base imponibile di valore oltre 1 milione di euro ma non superiore a 5 milioni di euro;
- 1 per cento per una base imponibile di valore oltre i 5 milioni di euro ma non superiore a 50 milioni di euro;
- 2 per cento per una base imponibile di valore superiore ai 50 milioni di euro.
La proposta di modifica, presentata in commissione bilancio alla Camera, è stata poi ritirata, dopo il parere negativo di governo e relatori. “In questi giorni molti, anche nella maggioranza, hanno aperto all’idea di una patrimoniale, pur criticando la nostra proposta. Siamo ovviamente disponibili a riformularlo insieme in modo da trovare un testo condiviso, ma invitiamo tutte le forze di maggioranza a trovare il coraggio di fare una scelta giusta”, hanno commentato i due parlamentari, sottolineando che avrebbero ripresentato “l’emendamento in aula e poi al Senato”.
Nel loro studio, Hope e Limberg fanno notare che i tagli maggiori nelle tasse destinate ai più ricchi si sono verificati nei vari paesi soprattutto dopo il 1980: erano gli anni in cui, negli Stati Uniti, venivano approvati il First Reagan Tax Cut (1982) e il Second Reagan Tax Cut (1986/198). Queste riforme fiscali non hanno “portato a una maggiore crescita economica, né nel breve né nel medio periodo”, evidenziano i due professori, e lo stesso vale per il tasso di disoccupazione. In sostanza, hanno fatto bene ai diretti interessati, ma hanno dato poco o nulla alla società nel suo complesso.
Fonte: https://it.businessinsider.com/tasse-ricchi-patrimoniale-covid-italia/
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