I super ricchi cavalcano la crisi: sono in aumento, ma non investono
In Italia 200mila individui hanno almeno 1 milione di dollari a testa, mentre 5 milioni di persone per nutrirsi si rivolgono a enti caritativi.
Segni particolari: super ricchi. È questo il tratto comune che unifica le 14 milioni di persone sparse per il globo che possiedono asset da investire per 1 milione di dollari o più (escludendo dal calcolo residenza principale, consumabili, collezioni e beni di consumo durevoli). Erano 1,76 milioni in meno solo un anno prima, e sono i cosiddetti Hgwi – High Net Worth Individual. A dispetto della crisi le loro fila si ingrossano di anno in anno.
L’avanzata di questa invincibile armata è documentata nel nuovo studio “World Wealth Report“, realizzato dalla Royal Bank of Canada (Rbc) insieme alla società di consulenza Capgemini. Presentato a Zurigo (a proposito, la Svizzera che con un referendum ha detto no all’introduzione di un tetto massimo ai salari ha guadagnato 47.500 ricchi in più in 12 mesi), il rapporto ha contato nel 2013 una crescita del 14% dei super ricchi, la cui ricchezza complessiva ha raggiunto il record di 52.620 miliardi di dollari; un bel gruzzolo, se si pensa che il Pil mondiale prodotto nell’arco di un anno ammonta a circa 60mila miliardi di dollari. Il 60% di tale ammontare è suddiviso tra Usa, Cina, Germania e Giappone, ma anche per i ricchi italiani ci sono buone notizie.
Anche se il Pil cala, nel 2013 infatti in Italia i super ricchi sono aumentati con un trend maggiore rispetto a quello medio europeo, e il loro aumento segna un +15,6%. Si avvicina così ai 208mila individui (dai 176mila del 2012) presenti nel Bel Paese nel 2007, anno ultimo dell’era pre-crisi. Si fermano invece a quota 3mila quanti dispongono di una ricchezza pari o superiore a 30 milioni di dollari: i ricchissimi sono l’1,5% degli hwni.
Niente di male, se non fosse che anche dall’altra parte della medaglia il numero dei più poveri s’ingrossa drammaticamente di anno in anno. L’aumento delle disuguaglianze è il comune tratto mondiale di questi anni di crisi, e l’Italia non fa eccezione. Secondo gli ultimi dati diffusi dal Banco alimentare, l’8% per cento della popolazione italiana (circa 4.814.000 cittadini) possono nutrirsi solo grazie al sostegno di migliaia di enti caritativi che distribuiscono cibo, proprio come nel caso del Banco.
Si dirà che questo non è colpa dei grandi ricchi, e generalmente è vero: dei distinguo si potrebbero fare andando ad analizzare come è stato raggiunto il loro aumento di ricchezza, scoprendo così questo appare legato principalmente alle performance in borsa e non nell’economia reale, con tutto quello che la speculazione finanziaria ha comportato in questi anni, anche al nostro Paese. Ma rischieremmo di fare di tutta l’erba un fascio.
Quel che è certo è che circa 200mila persone hanno in Italia una quota rilevantissima di ricchezza pronta per essere investita (in modo redditizio, s’intende), ma la tenie chiusa nel portafoglio. Lo stesso dicasi per l’Europa, dove i ricchi sono a loro volta aumentati, raggiungendo quota 3,83 milioni e assommando 12,39 trilioni di dollari. Perché l’Ue, all’apparente quanto costante (e al momento vana) ricerca di fondi per indirizzare lo sviluppo del Vecchio Continente non si preoccupa di mettere in piedi una cornice fiscale che suggerisca ai ricchi soggetti che lo popolano quanto sarebbe più conveniente per tutti se la loro ricchezza venisse investita in modo intelligente? La stessa domanda potrebbe ovviamente essere posta al governo nazionale, ma con aspettative diremmo oggettivamente più basse. Uno dei grandi problemi (fiscali, ma non solo) dell’Italia, prima della ricchezza improduttiva, rimane a oggi la ricchezza evasa; da quando (nel 2011, giusto per restare vicini, e in tempi di crisi) vennero individuati 518 contribuenti che dichiaravano d’aver guadagnato meno di 20mila euro l’anno ma possedevano un aeroplano, a oggi, la situazione non è migliorata molto.
Ma la green economy, e la promessa di sviluppo inclusivo che porta con sé, non si realizzerà soltanto impilando una serie di dichiarazioni d’intenti. Servono investimenti – ed equità sociale, se si vuole davvero quella ambientale – e i soldi per realizzarli ci sono. O meglio, ci sarebbero.
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