Tutto in famiglia. Come il capitalismo clientelare (con gli occidentali) ha spolpato la Tunisia
Sulla copertina di The Economist del 15 marzo sotto il titolo “The new age of crony capitalism” c’erano un ippopotamo, un lupo e un coccodrillo in giacca e cravatta che, secondo uno degli organi ufficiali del capitalismo mondiale, simboleggiano l’attuale sistema economico dominante. Dai petrolieri dell’America degli anni ’20 si è arrivati ai “lupi”, gli oligarchi ucraini e russi postcomunisti di oggi, e agli “ippopotami” che svendono le risorse dell’Africa sub sahariana, ai fino ai “coccodrilli” che avevano azzannato (e che non lasciano ancora la presa) i Paesi del nord Africa. Tutti buoni amici dell’Occidente (ma anche dei cinesi) e spesso degli italiani, come i regimi dittatoriali/dinastici di Tunisia, Egitto e Libia spazzati via da primavere, rivoluzioni e guerre.
Il Policy research working paper “All in the family: state capture in Tunisia” di Bob Rijkers ed Antonio Nucifora, della World Bank, e Caroline Freund, del Peterson Institute of International Economics, si occupa di uno dei regimi che erano più cari all’imprenditoria ed alla politica italiana ed in particolare delle fortune accumulate dalla famiglia e dalla famelica cricca dell’ex presidente Zine al-Abidine Ben Ali in Tunisia e Rijkers dice che, insieme al tesoro accumulato da Hosni Mubarak, l’ex presidente dell’Egitto già zio di Ruby rubacuori, «erano talmente osceni che hanno contribuito a innescare le rivoluzioni della primavera araba, con i manifestanti che chiedevano la fine della corruzione da parte dell’élite».
Il nuovo studio dimostra che il livello di appropriazione dell’economia tunisina da parte della banda di cleptomani di o Ben Ali era straordinario: «Entro la fine del 2010, circa 220 aziende collegate a Ben Ali ed alla sua famiglia allargata si erano impossessate di un sorprendente 21% annuo di tutti i profitti del settore privato in Tunisia (o 233 milioni dollari, pari ad oltre lo 0,5% del Pil)».
Non è che queste cose non si sapessero e non le sapessero gli imprenditori italiani o i politici craxiani/berlusconiani che presentavano la Tunisia di Ben Ali come un baluardo della democrazia, e lo sapeva bene anche la Banca Mondiale, ma Rijkers, un economista della Trade and international integration unit del development economics research group della Banca Mondiale, scrive che «Dopo il 2011 l’apertura della Tunisia ci ha dato un’opportunità unica per esplorare i dati precedentemente inaccessibili al pubblico. In collaborazione con l’Ufficio nazionale di statistica della Tunisia, abbiamo compilato una serie di dati unica: abbiamo accorpato i dati relativi ai regolamenti di investimento con bilancio ed a livello di società i dati del censimento 1994-2010 della Tunisia, con cui abbiamo identificato 220 aziende collegate alla famiglia allargata di Ben Ali ( come individuati dalla Commissione incaricata di confiscare i beni che appartenevano a Ben Ali ed alla sua famiglia allargata)».
Le imprese della cricca di Ben Ali ed a lui collegate mostravano risultati migliori dei concorrenti in termini di occupazione, produzione, quota di mercato, crescita e profitti. Come hanno fatto a fare questo? Il rapporto spiega che «I settori in cui queste imprese erano attive (quali le telecomunicazioni, il trasporto aereo e marittimo, il commercio e la distribuzione, il settore finanziario, immobiliare, gli alberghi e ristoranti) sono sproporzionatamente soggetti a restrizioni all’ingresso ed agli investimenti esteri. La performance delle imprese legate alla famiglia di Ben Ali era significativamente più grande quando operano in questi settori altamente regolamentati. In parole povere, vincolare la concorrenza ha permesso alle imprese di Ben Ali di accumulare più profitti».
Ma al regime cleptomane tunisino non bastava e (forse vi ricorda qualcosa di un suo amico italiano…) «Se le regole non proteggevano un settore lucroso, Ben Ali utilizzava il potere esecutivo per modificare la legislazione in suo favore. In particolare, l’introduzione di nuove restrizioni agli investimenti esteri e di richieste di autorizzazione era correlata con la presenza e l’entrata di imprese legate alla famiglia di Ben Ali». In 16 anni Ben Ali ha firmato 25 decreti che introducono nuovi requisiti di autorizzazione in 45 diversi settori e nuove restrizioni ai Fdi (Foreign direct investment) in 28 settori che servivano a recintare e tutelare gli interessi dei clan dalla concorrenza, offrendo così alla banda un’altra possibilità fare profitti straordinari.
I tre ricercatori dicono che «Le prove che abbiamo trovato sono coerenti con un vasto corpo di letteratura e dimostrano che i Paesi con più ampie regole di ingresso del business tendono a crescere più lentamente e hanno livelli più elevati di corruzione. I nostri risultati dimostrano che, oltre a compromettere la crescita delle imprese e la creazione di opportunità per la corruzione, norme di ingresso ingombranti sono anche suscettibili di essere sistematicamente abusate da parte dello Stato quando le istituzioni sono deboli. Le conseguenze di questo uso dei regolamenti per estrarre rendite (cioè di appropriarsi della ricchezza) è molto peggio del solo costo della piccola corruzione. I consumatori pagano prezzi di monopolio. Le imprese non hanno alcun incentivo a migliorare la qualità del prodotto. E i guadagni di produttività e innovazione che sarebbero arrivati da nuove imprese vengono impediti. In altre parole, mina la competitività dell’economia, ostacola gli investimenti e la creazione di posti di lavoro».
Tutto bene, ma i tre studiosi forse non hanno dato un’occhiata troppo attenta alle centinaia di imprese straniere (italiane comprese) che hanno spolpato la Tunisia insieme alla gang di Ben Ali, approfittando della corruzione ed adagiandosi sui monopoli del regime. E’ palese che il capitalismo internazionale non ha rappresentato la medicina per il capitalismo familistico tunisino perché il rapporto tra i due era incestuoso.
Ora, a tre anni dalla rivoluzione dei gelsomini, il Policy research working paper sottolinea che «Il sistema economico che esisteva sotto Ben Ali non è stato modificato in modo significativo e le richieste dei tunisini di accedere alle opportunità economiche sono ben lungi dall’essere realizzate. Mentre sono stati fatti sforzi per rivedere o riformare alcune di queste regole, c’è la possibilità che la Tunisia completi la sua transizione politica senza riformare quello che fu uno dei principali facilitatori della corruzione e del clientelismo che hanno portato così tanti tunisini in piazza tre anni fa. La Tunisia ha compiuto un primo e importante passo: offrire un più ampio accesso a dati e informazioni per migliorare la responsabilità. Ora è arrivato il momento della seconda fase, eliminando gli ostacoli normativi che proteggevano i pochi a scapito di molti».
Visto che Ben Ali non c’è più bisognerebbe che la Banca Mondiale lo ricordasse anche alle mai menzionate imprese e multinazionali occidentali che hanno fatto affari con la dittatura cleptomane e che quei privilegi hanno continuato a sfruttarli anche con il nuovo governo islamico.