Sud Sudan, il golpe è del presidente

Sud Sudan, il golpe è del presidente

Il presidente Salva Kiir aveva gridato al golpe, ma quello che è seguito ha tolto ogni dubbio e dimostrato che si trattasse di un pretesto per liberarsi degli scontenti, che però ha trascinato il paese nella guerra civile.
Oltre 20 anni di guerra con il governo sudanese, poi la secessione e la nascita dello stato più giovane del mondo, il 9 luglio del 2011 e oggi è di nuovo guerra.

Le responsabilità sono abbastanza chiare, ai primi accenni di critica Kiir aveva lanciato attacchi al Sudan e chiuso i rubinetti del petrolio in un crescendo velleitario che poi è stato ricondotto alla ragione dai tutori internazionali del giovane governo, su tutti Washington, che insieme a Londra ha fatto di tutto per favorire la nascita del nuovo stato.

Persi due anni di rendita petrolifera e dilapidato in vecchi carri armati ucraini e corruzione quel poco che restava, il governo di Kiir era in pericolosa crisi di consenso all’interno del partito unico che governa il paese, traduzione politica dell’esercito di liberazione che ha combattuto contro il Sudan e rischiava il posto, così in un crescendo di tensioni e arrivata la denuncia del golpe da parte di Riek Machar, suo vicepresidente e sono scoppiate le violenze.

Un conflitto politico che molti hanno voluto leggere attraverso le lenti della frattura etnica, ma gli sviluppi successivi si sono incaricati di questa lettura di comodo, tipica dei conflitti africani. Lunedì il governo Sud-sudanese ha ammesso defezioni di massa nell’esercito e invocato l’aiuto internazionale per riempire i vuoti.

E per riempire i vuoti lo stesso governo ha ammesso, per bocca del ministro delle finanze Kuol Manyang Juuk, di finanziare il contingente ugandese. Contingente che in teoria si trovava nel paese per assistere il novello stato nella caccia a Joseph Kony, un signore della guerra ugandese in disarmo che sembra l’unico pericolo contro il quale la comunità internazionale (Stati Uniti e vassalli africani) abbia trovato comunione d’intenti.

Lo speaker del governo in parlamento, Tulio Odongi, ha detto in aula che il 70% dei militari è passato con Machar e che anche la polizia sta facendo lo stesso. Un dato che fa stracci di qualsiasi tentativo di qualificare il conflitto come etnico o settario e che spiega perché il governo paghi gli ugandesi per difendersi sperando di trovare di meglio con il tempo, anche se la pubblica chiamata alle armi non ha ottenuto alcun risultato evidente.

Il portavoce di Machar, James Gatdet Dak, ha confermato e detto d’attendersi altre defezioni nei prossimi giorni e che il motivo sarebbe che militari e poliziotti hanno concluso che sia stato Kiir a istigare la violenza a tradimento. Una sentenza di morte per il suo governo e una notizia sgradita per i suoi sponsor, su tutti gli ugandesi che ora rischiano di trovarsi in una situazione spiacevolissima.

La situazione peggiore resta quella dei civili, che nelle città contese dalle due fazioni sono rimasti vittima della violenza dei combattimenti e della brutalità dei combattenti. A Bor, capitale dello stato di Jonglei, una città che ha cambiato di mano più volte, si sono contate circa 2.000 vittime, che non possono essere seppellite perché in città non è rimasto nessuno.

Arriva nei pressi del milione il numero di persone sfollate e in fuga dalla guerra, un numero enorme in un paese nel quale circa un terzo degli abitanti è assistita e nutrita da organizzazioni internazionali che in caso di conflitto non possono raggiungere chi ha bisogno. Situazione aggravata dall’assenza di strade e dall’incombere della stagione umida, che promette l’allagamento di vaste aree del paese.

Ritornando a Bor il reverendo Thomas Kur ha trovato sei sacerdotesse orrendamente uccise, mutilate e stuprate all’interno della chiesa episcopale di St. Andrews. Questo per dire del livello di efferatezza e anche della «cristianità» dei soldati che in teoria hanno combattuto una guerra di liberazione dei «cristiani» del Sud dalla barbarie dei «musulmani» del Nord, una semplificazione data per buona acriticamente per oltre 20 anni.

Malakal, un altro grosso centro da cui giungono notizie allarmanti, la città è divisa tra le due fazioni e ci sono stati feroci combattimenti attorno al compound della UNMISS vicino all’aeroporto, al riparo dei quali si sono rifugiate oltre 27.000 persone ora terrorizzate.

Il brutto è che le due parti ora dovrebbero essere in regime di cessate-il-fuoco pattuito il 23 gennaio scorso e mai veramente rispettato. A segnalare un presa di coscienza importante, gli Stati Uniti hanno intimato a Museveni di ritirare le truppe ugandesi dalla battaglia e subito l’ONU ha ribadito il consiglio, ma non è chiaro se l’intervento americano conseguirà il risultato all’apparenza desiderato e in che tempi, visto che l’Uganda ha risposto che ritirerà le sue truppe quando ne arriveranno altre che permettano il mantenimento della «sicurezza», come se i suoi soldati non fossero uno dei fattori che più la minaccia.

Per il contingente panafricano ci vorranno però ancora settimane e ogni giorno può portare massacri e l’idea di un Kiir barricato nella capitale e difeso dagli ugandesi mentre non ha più controllo sull’esercito e la polizia, è uno scenario inquietante, così com’è poco auspicabile che un eventuale intervento internazionale si risolva nel conservarlo al potere a dispetto delle sue evidenti responsabilità e dello sgradimento generale, mai come ora ci sarebbe la necessità che i padrini di Kiir lo abbandonassero al suo destino e lo consegnassero a un comodo esilio, per il bene suo e soprattutto per quello del paese.

Fonte: mazzetta.wordpress.com

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