Fame in Africa
Dopo i fatti di Rosarno, vediamo i dati dell’Africa forniti del Movimenti dei senza terra e cerchiamo di capire perchè succedono queste cose. Inoltre noi di ICare stiamo organizzando insieme all’Ass. Villaggio Globale una conferenza sull’Africa per Aprile.
Il “Movimento dei sem-terra” (MST) è una forma di organizzazione sociale dei senza-terra, i quali sono costretti a lavorare la terra per gli altri sotto le più differenti forme come la mezzadria, l’affitto, come semplici salariati; pertanto, per risolvere questo problema, la principale soluzione è ottenere una terra dove poter lavorare.
Il MST è nato come una forma di coscientizzazione e organizzazione di agricoltori i quali hanno percepito che, avendo un pezzo di terra, avrebbero potuto liberarsi dallo sfruttamento dei latifondisti ed iniziare ad organizzare la propria vita e quella della propria famiglia per poter progredire. Possedere un pezzo di terra significava avere lavoro, cibo, reddito; vivere in una comunità rurale significava poter creare dei servizi minimi per una vita dignitosa.
DATI MST
1. Dal 1960 la produzione di cereali nel mondo è aumentata di 3 volte, mentre la popolazione mondiale è cresciuta del 100%, da 3 a 6.2 miliardi.
La disponibilità di alimenti per persona è cresciuta del 24%, l’offerta di calorie quotidiane per abitante è cresciuta da 2.360 a 2.803.
2.. Nel 1960 si stimava che – in tutto il mondo – ci fossero 80 milioni di persone che soffrivano la fame, nel 2006 sono diventate 880 milioni,il 60% vive in ambiente rurale ( oggi gli affamati sono oltre 1 miliardo, l’80% sono contadini):
Circa 515 milioni vivono in Asia (il 24% della popolazione, con 200 milioni solo in India!)), 186 milioni nell’Africa sub-sahariana, (34% della popolazione), 100 milioni nelle Americhe.
Nel 2007 gli affamati sono cresciuti di 75 milioni per gli aumenti dei prezzi alimentari
3.. Fino al 1960 la maggioranza dei paesi era autosufficiente nella produzione di alimenti per i propri popoli, tranne alcune regioni dell’Africa con grandi problemi climatici.
Oggi, il 70% dei paesi dell’emisfero sud sono importatori di alimenti.
4.. Secondo la relazione sui Diritti Umani dell’ONU, circa 100.000 persone, soprattutto bambini e anziani, muoiono di fame ogni giorno.
5.. Secondo la stessa relazione, soltanto il 5% delle persone soffre la fame a causa dei problemi climatici. Il 95 % delle persone soffre la fame per problemi strutturali dell’economia e della politica e vivono in paesi che potrebbero produrre i propri alimenti.
6 Il modello industriale della produzione agricola (rivoluzione verde) ha danneggiato la fertilità dei terreni nel 20% di tutta l’area coltivata. In diversi paesi dell’Africa e dell’America centrale il danno si estende al 70% dell’area coltivata.
7. Con le tecniche agricole che esigono irrigazione intensiva, oggi si usa circa il 70% dell’acqua potabile del mondo nell’agricoltura. Ogni anno si perdono 1,5 milioni di ettari coltivati per la salinizzazione delle terre.
Dalla Rivoluzione verde circa 45 milioni di ettari sono stati danneggiati e 1,6 miliardi di persone non hanno accesso all’acqua necessaria.
Mi sembra importante che , dopo i fatti di Rosarno, un giornalista scomodo come Massimo Fini abbia pubblicato su Il Fatto un articolo interessante che si può anche non condividere ma ci aiuta ad andare in profondità e capire meglio cosa succede e cosa è successo in Africa.
“QUANDO L’AFRICA ERA DAVVERO NERA NON MORIVA DI FAME ” DI MASSIMO FINI 14/01/2010
Sui fattacci di Rosarno anche la stampa più bieca e razzista è stata costretta a prendere le parti degli immigrati (“Hanno ragione i negri”, ha titolato il Giornale, 9/1), sfruttati fino all’osso per i famosi lavori che “gli italiani non vogliono più fare”, costretti a vivere in case di cartone e, come se non bastasse, presi anche a pallettoni. Ed è assolutamente ipocrita chiamarli “neri”, in linguaggio politically correct, come fa la sinistra se poi li si tratta da “negri” che è il senso ironico del titolo di Feltri.
Quando però si analizzano le cause di queste migrazioni ormai bibliche, che portano a situazioni tipo Rosarno in Europa e negli Stati Uniti, la stampa occidentale resta sempre, e non innocentemente, in superficie. Si dice che costoro sono attratti dalle bellurie del nostro modello di sviluppo. Ora, non c’è immigrato che non possegga almeno un cellulare e che non sia in grado di avvertire chi è rimasto a casa di che “lacrime grondi e di che sangue” questo modello, per tutti e in particolare per chi, come l’immigrato, è l’ultima ruota del carro.
Si dice allora che costoro sono costretti a venire qui a fare una vita da schiavi a causa della povertà e della fame che strazia i loro Paesi. E questo è vero. Ma non si spiega come mai queste migrazioni di massa sono cominciate solo da qualche decennio e vanno aumentando in modo esponenziale. In fondo le navi esistevano anche prima e pure i gommoni. Il fatto che gli immigrati di Rosarno siano prevalentemente provenienti dall’Africa nera ci dà l’opportunità di spiegarlo.
L’opinione pubblica occidentale, anche a causa della disinformatia sistematica dei suoi media, è convinta che la fame in Africa sia endemica, che esista da sempre. Non è così. Ai primi del Novecento l’Africa nera era alimentarmente autosufficiente. Lo era ancora, in buona sostanza (al 98%), nel 1961. Ma da quando ha cominciato ad essere aggredita dalla pervasività del modello di sviluppo industriale alla ricerca di sempre nuovi mercati, per quanto poveri, perché i suoi sono saturi, la situazione è precipitata. L’autosufficienza è scesa all’89% nel 1971, al 78% nel 1978. Per sapere quello che è successo dopo non sono necessarie le statistiche, basta guardare le drammatiche immagini che ci giungono dal Continente Nero o anche osservare a cosa siano disposti i neri africani, Rosarno docet, pur di venir via.
Cos’è successo? L’integrazione nel mercato mondiale ha distrutto le economie di sussistenza (autoproduzione e autoconsumo) su cui quelle popolazioni avevano vissuto, e a volte prosperato, per secoli e millenni, oltre al tessuto sociale che teneva in equilibrio quel mondo (come è avvenuto in Europa agli albori della Rivoluzione industriale quando il regime parlamentare di Cromwell, preludio della democrazia, decretò la fine del regime dei “campi aperti” (open fields), cosa a cui le case regnanti dei Tudor e degli Stuart si erano opposte per un secolo e mezzo, buttando così milioni di contadini alla fame pronti per andare a farsi massacrare nelle filande e nelle fabbriche così ben descritte da Marx ed Engels).
Oggi, nell’integrazione mondiale del mercato, nella globalizzazione, i Paesi africani esportano qualcosa ma queste esportazioni sono ben lontane dal colmare il deficit alimentare che si è venuto così a creare. E quindi la fame.
Senza per questo volerlo giustificare il colonialismo classico è stato molto meno devastante dell’attuale colonialismo economico. Fra i due c’è una differenza sostanziale, di qualità. Il colonialismo classico si limitava a conquistare territori e a rapinare materie prime di cui spesso gli indigeni non sapevano che farsi, ma poiché le due comunità rimanevano separate e distinte poco cambiava per i colonizzati che, a parte il fatto di avere sulla testa quegli stronzi, continuavano a vivere come avevano sempre vissuto, secondo la loro storia, tradizioni, costumi, socialità, economia.
Il colonialismo economico, invece, ha bisogno di conquistare mercati e per farlo deve omologare le popolazioni africane (come del resto le altre del cosiddetto Terzo Mondo) alla nostra way of life, ai nostri costumi, possibilmente anche alle nostre istituzioni (la creazione dello Stato, per soprammercato democratico o fintamente democratico, ha avuto un impatto disgregante sulle società tribali), per piegarle ai nostri consumi. In Africa si vedono neri con i RayBan (con quegli occhi!) e il cellulare, che costano niente, ma manca il cibo. Perché il cibo non va dove ce n’è bisogno, va dove c’è il denaro per comprarlo. Va ai maiali dei ricchi americani e, in generale, al bestiame dei Paesi industrializzati, se è vero che il 66% della produzione mondiale di cereali è destinato alla alimentazione degli animali dei Paesi ricchi (dato Fao).
E adesso ci si è messa anche la Cina, new entry in questo gioco assassino, che compra, con la complicità dei governanti corrotti, intere regioni dell’Africa nera la cui produzione, alimentare e non, non va ai locali, sfruttati peggio degli immigrati di Rosarno, ma finisce a Pechino e dintorni. Ma l’invasione del modello di sviluppo egemone ha anche ulteriori conseguenze, quasi altrettanto gravi della fame. Sradicati, resi eccentrici rispetto alla propria stessa cultura che è finita nell’angolo, scontano una pesantissima perdita di identità. A ciò si devono le feroci guerre intertribali cui abbiamo assistito, con ipocrita orrore, negli ultimi decenni. Perché le guerre in Africa, sia pur con le ovvie eccezioni di una storia millenaria, avevano sempre avuto una parte minoritaria rispetto alla composizione pacifica fra le sue mille etnie (J.Reader, “Africa”, Mondadori, 2001).
E così fra fame, miseria, guerre, sradicamento, distruzione del loro habitat, costretti a vivere con i materiali di risulta del mondo industrializzato (si vada a Lagos, a Nairobi o in qualsiasi altra capitale africana) i neri migrano verso il centro dell’Impero cercandovi una vita migliore. O semplicemente una vita. E i nostri “aiuti”, anche quando non sono pelosi, non solo non sono riusciti a tamponare il fenomeno della fame e della miseria, in Africa e altrove, come è emerso dal recente vertice della Fao tenuto a Roma, ma l’hanno aggravato perché tendono ad integrare ulteriormente le popolazioni del Terzo Mondo nel mercato unico mondiale, stringendo così ancor di più il cappio intorno al loro collo. Alcuni Paesi e intellettuali del Terzo Mondo lo avevano capito per tempo. Una ventina di anni fa, in contemporanea con una delle periodiche riunioni del G7 (allora c’era ancora il G7), i sette Paesi più poveri del mondo, con alla testa l’africano Benin, organizzarono un polemico controsummit al grido: “Per favore non aiutateci più!”. Ma non vennero ascoltati.